La casa dalla porta dorata. Non c’è scelta per chi non è Uomo o Aristocratico.

La casa dalla porta dorata. Non c’è scelta per chi non è Uomo o Aristocratico.

Lo aspettavo da molto tempo e finalmente oggi: 16 maggio 2023, il secondo libro di Elodie Harper è in tutte le librerie. Seguito de Le lupe di Pompei, sugli scaffali di tutte le librerie e, finalmente, tra le mie mani, arriva La casa dalla porta dorata.

Ricordate le ragazze del lupanare di Felicio?

Amara ormai liberata dal generale della flotta romana Plinio e sotto il patrocinio di Rufo è fuori dalle follie rabbiose del feroce lenone.

Didone, la migliore amica di Amara, è stata trafitta da un pugnale che l’ha uccisa al posto di Felicio.

Ed ora eccoci qui, tra le mura de La casa dalla porta dorata.

Qui vive Amara, ormai liberta, come concubina di Rufo a cui la ragazza piace fragile come un uccellino in gabbia e come tale vuole vederla cantare e suonare.

Quello che il patrizio non sa è che Amara potrà anche essere l’oggetto dei suoi desideri ma non è fragile.

La realtà, che la spaventa, è che la sua sete di libertà e indipendenza la fa somigliare all’uomo che fino a poco tempo prima era il suo padrone.

Amara, non Timarete (il suo vero nome, quello che le ha donato suo padre alla nascita), è costretta ad essere quello che la vita le ha insegnato.

Più che un nome il suo è, ormai, un titolo conquistato a fatica.

Purtroppo oltre ad essere spregiudicata e dotata di un forte senso di sopravvivenza, Amara è la trasfigurazione della vendetta della dea Diana.

La dea che ne La casa dalla porta dorata ha il volto di Didone è la mandante di una furia chiamata Vendetta.

Quest’ultima si è impossessata di Amara e l’acceca con il dolore per la perdita della sua amica.

È per perseguire la tempesta della vendetta che si ritrova ad avere a che fare con Felicio, di nuovo.

Amara costringe l’uomo a liberare Vittoria e venderle Britanna; così facendo si indebita e si ritrova in una spirale discendente in cui trascinerà tutto quello che ha di più caro.

Forse, in fin dei conti, Gaia Plinia Amara non è così spregiudicata come crede di essere.

Questa, come il precedente libro, non è una storia di salvezza.

La casa dalla porta dorata non è la libertà.

Quattro mura costituiscono l’illusione di avere qualcosa che le appartenga ma sono solo una gabbia più grande con un guinzaglio più lungo di qualche metro.

Il precipizio è ancora lì: più lontano forse ma più profondo di qualche decina di metri.

Amara non sta giocando con il fuoco ma con l’intero cratere che sovrasta Pompei e, ormai, non è più il suo solo destino ad essere appeso ad un filo sottilissimo.

La scelta è chiara: sopravvivere ancora a dispetto di tutti e tutto o sfidare la sorte con le carte più orribili che il destino può servire?

L’esistenza di Amara è un gioco sulla lama di un rasoio; ogni respiro è una lotta per la sua anima in cui il suo antagonista peggiore è il riflesso che vede nello specchio della sua toeletta.

La casa dalla porta dorata è un altro successo di Elodie Harper.

La condizione della donna della seconda metà del I secolo d.C. non è il solo scoglio che viene affrontato e su cui il lettore viene spinto fino a frantumarsi ed escoriarsi la pelle, ma è l’intero substrato sociale che muove l’impero ad essere sviscerato ed esposto come un corpo lasciato a marcire nella discarica fuori le mura di Pompei.

Della fiorente città campana noi ricordiamo le favolose rovine, i meravigliosi doni che ancora ci restituisce, i magnificenti dipinti e i ridanciani motti di spirito sui muri ma… tra quelle vie e quelle mura vivevano migliaia di persone di cui la storia ha dimenticato di prendere nota.

Ora ce li ricorderemo tutti, grazie a questa saga, possiamo dar loro un nome da iscrivere sulle steli.

La casa dalla porta dorata

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Chiude gli occhi, immaginandosi di essere a casa, al sicuro nel suo studio privato, non seduta qui, sulla pubblica piazza, a sorridere nonostante la paura.

Annalena. La grandezza di una piccola donna che donò se stessa

Annalena. La grandezza di una piccola donna che donò se stessa

Ho conosciuto Annalena Benini in una serata d’estate, all’interno di uno degli eventi dello ScrittuRa (Festival di letteratura organizzato a Ravenna-Lugo). In quella serata veniva presentato I racconti delle donne, edito per Einaudi, e mi ha folgorata. Torno oggi alla penna della Benini per leggere Annalena, il suo ultimo libro, sempre per Einaudi.

L’antologia con i racconti delle donne, che sono artiste e scrittrici conosciute e molto amate, mi aveva folgorata: sulla via di Damasco ho avuto la certezza che non sarò mai in grado di scrivere in nessuno di quei modi incisivi e mi sono sentita piccola di fronte alla grandezza della letteratura.

Annalena, invece, mi ha strappato il cuore.

Non sarò mai la Didion o la Yourcenar, ma la mia indole umana non sarà mai nemmeno vicina a quella di Annalena Tonelli, cugina di terzo grado della Benini.

Annalena è un libro biografico, almeno in parte, perché della sua vita di cui la Tonelli non voleva si parlasse è solo parte dell’immensità della vita che questa donna e minuta è riuscita a salvare, coinvolgere e toccare con la sua sola esistenza.

Anche la vita della Benini ne è stata toccata, non solo per la parentela che le lega, ma anche perché quando insegui la vita di qualcuno finisci per capitolarci dentro.

Puoi quasi toccare la pelle del tuo soggetto, entra a far parte di te. Lontane ma vicinissime, solo ad un sussurro.

La prima parte del racconto di questo libro mi ha fatta sorridere più di una volta.

Io e la Benini non ci conosciamo personalmente, ma la sua esperienza con la vita quotidiana mi ha permesso di credere che forse abbiamo qualche piccola cosa in comune.

Se non per altro almeno per una certa questione su di un naso che potrebbe essere, o non essere, ereditario.

Annalena Tonelli è stata uccisa nel 2003, in Somalia, con un colpo di fucile.

Aveva sessant’anni e il motivo della sua uccisione è stato una cosa (ben più di una in realtà) piccola, banale, e buia: l’ignoranza, la paura, Il Male.

Questa piccola donna avrebbe potuto scegliere di vivere negli agi di una vita borghese, facendo beneficienza a Forlì. Invece, ha scelto di partire per ovunque ci fosse bisogno di lei.

Il Kenya, la Somalia e molti altri.

Ha scelto una vita mortale. Ha preso la sua intera esistenza e l’ha donata a coloro che desiderava.

Ovvero tutti coloro che sono gli ultimi, gli abbandonati, i dimenticati.

Perdonatemi la parafrasi di una famosa frase de Il Signore degli Anelli, nella trasposizione cinematografica di Peter Jackson, ma non avrei saputo descrivere meglio di così quello che la Tonelli ha compiuto della sua vita.

La “Santa Annalena Tonelli” è l’epiteto con cui Il Corriere della Sera ha dato notizia della sua morte.

Epiteto che non sarebbe stato affatto amato dalla stessa poiché credeva che non servisse a nulla parlare di coloro che soffrono, occorreva fare qualcosa di concreto.

Immergersi nella sofferenza, donare ogni briciolo della propria vita, dare fino a svuotarsi e amare fino al limite delle proprie forze.

È una cosa bellissima da dire ed è fortissimo lo slancio che tutti sentiamo di fronte a questo appello, ma quanti di noi lo farebbero realmente?

Ne avremo la forza?

Ad un certo punto, io come la Benini, come tutti, ci troviamo a dover rispondere all’annosa questione: quando smetteremo di cercare di essere altri che non siamo noi stessi?

Non possiamo essere tutti grandi. Non saremo mai tutti dei giganti ma siamo forze, magari meno brillanti o meno forti rispetto ad altri.

Il nostro compito è vivere al massimo delle nostre possibilità, Vivere essendo coscienti di farlo, accettare quello che non possiamo cambiare per non disperdere le energie che ci consentono di compiere le grandi opere che sono destinate a noi e non ad altri.

Annalena Benini intreccia la sua vita a quella di un’anima inarrivabile, ce la restituisce attraverso i libri che la Tonelli amava e che le davano forza quando si sentiva sola e non compresa.

Ha esaltato la vita di colei che avrebbe detestato i nomi con cui la stampa e il piccolo mondo la identificava.

L’ha resa immensa facendoci vedere anche quelle che sono i lati umani che noi tutti nascondiamo per non sentirci molto più vulnerabili.

L’autrice ha “infranto il dogma” secondo cui non si sarebbe dovuto scrivere della Tonelli e, anche se in piccolo, l’ho fatto anche io per rendere omaggio al suo ritratto così abilmente delineato.

Annalena

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Altre recensioni Einaudi?

Il pianto delle troiane. Il corpo di Ilio insepolto e spoglio di epica. Ma nei prossimi giorni sbriciate nel sito, ne troverete altre.

Lei voleva essere nessuno, ma la vita è anche mancare qualcosa, non riuscire in qualcosa, non colmare la misura fino all’orlo. Lei che è stata la dismisura in tutto, non è riuscita a colmarela misura dell’essere nessuno.

Il senso dell’alligatore. Un thriller di formazione ricco di suspense

Il senso dell’alligatore. Un thriller di formazione ricco di suspense

Nella mia carriera da lettrice raramente mi capita di leggere libri da annoverare nella categoria thriller. Perché? La risposta mi è sempre sembrata semplice: non mi entusiasmano, anzi tutto il contrario. La realtà è un’altra: sono semplicemente attratta da storie che non si fermino al puro meccanismo tipico del thriller, anzi ci deve essere molto di più. Ovviamente sono un’estimatrice del Re King ma…il mio sesto senso per la tragedia e la miseria del genere umano mi ha portata nel Vermont con Il senso dell’alligatore di Guido Sgardoli.

Fin dalle prime pagine mi sono subito sentita a mio agio tra le pagine di questo libro.

Ho pensato: Il senso dell’alligatore parla di casa mia, come è possibile?

Sono nata in un piccolo paesino in cui è davvero difficile che uno straniero riesca a fare breccia nelle dinamiche sociali del luogo; la mia famiglia è un incrocio di varie culture importate da periodi di prigionie e lotte nelle trincee.

Non è importante che io non sia nata in Vermont ma che ho sentito Wytaco come fosse davanti a me, pregi e svantaggi inclusi.

Dove tutti sono una famiglia ed è quasi un miraggio pensare che qualcosa non sia affare di tutti ma altrettanto vero conoscere i pozzi in cui i tuoi concittadini nascondono le loro personalità più sopite.

L’approccio a questo libro mi è sembrato quasi naturale, come vi dicevo, mi sono immersa nelle dinamiche della cittadina e nello stonato arrivo di Larry Novak in una comunità così raccolta su sé stessa da arrivare ad essere considerata, agli occhi di un estraneo, poco più che un covo di zotici.

Larry è un forestiero, the new kid in the town, quello che tutti pensano di sottovalutare perché non conosce come funziona il mondo di Wytaco.

È un veterinario e ha acquistato la casa che precedentemente apparteneva ad un collega più anziano, Elmer Elroy, che desiderava trasferirsi in uno stato più caldo e come dargli torto!

Ma Larry non è solo questo.

Il senso dell’alligatore parla di una vita spezzata, di pezzi di vetro dai bordi taglienti.

Una volta la vita di Larry era diversa e, di colpo, un camion l’aveva mandata in frantumi.

Il suo lavoro, la sua fidanzata, suo padre…tutto perduto e i sette anni di coma lo avevano derubricato nella sala d’aspetto infinita in cui finiscono coloro che sono sospesi dalla vita.

Doveva essere stato un miracolo a svegliarlo. Di conseguenza, ora, doveva trovare un luogo in cui vivere questa nuova esistenza.

Possibilmente una cittadina raccolta, dove non essere colui che si era risvegliato dopo sette anni di coma.

Chi, dopo un trauma, non ha desiderato vivere in un luogo dove poter far finta che tutto quello che era successo nella vita precedente non fosse mai accaduto?

Volere una Casa in cui ricucire se stessi senza doversi giustificare è La Necessità in molti casi.

“Sperava di tornare a casa.
Ci sperava, sebbene non ci credesse, così come non credeva a Babbo Natale o alla formica dei denti o agli alieni gentili come E.T., ma gli piaceva pensarci perché, finché non sai davvero se una cosa è vera o no, hai ancora la possibilità che lo sia.”

Per un attimo, qualche pagina e qualche capitolo Il senso dell’alligatore ricorda un romanzo di formazione o, per meglio dire un romanzo di ri-formazione.

Il racconto di una crisalide che tenta di passare al prossimo stato evolutivo.

Il mondo di Wytaco gira attorno agli affanni di Larry lasciandolo quasi “innocente” come un bambino nei confronti della tempesta che prima o poi arriverà.

Ognuno nel suo bozzolo è solo e rimettere insieme i pezzi non è operazione che possa essere imposta da altri ne tanto meno qualcuno possa obbligarti a ricucirli in una maniera che non sia tua.

Il dottor Novak crede di star facendo questo: affrontare i problemi come lui crede sia giusto per lui.

Per questo non si accorge dei lampi di luce.

Guido Sgardoli è un equilibrista che con perizia riesce a tenere Larry dentro la storia ma in una situazione sospesa nei confronti della cittadina.

Gli elementi che stanno addensando le nubi della storia sui tetti di Wytaco sono tutti davanti a voi.

Ed ecco che Il senso dell’alligatore, da narratore di crogiuoli di umanità sbeccate come la porcellana delle nonne che rimpinguano di torte di mele i loro nipoti, si appresta a divenire un palcoscenico di sospetti e manifestazione delle più oscure manifestazioni dell’animo umano.

A Wytaco, ogni tanto, un lupo sbrana una giovane vita e credere che si tratti di una triste serie di incidenti è sempre più difficile.

Il senso dell'alligatore

La parola all’autore: Ecco com’è nato il senso dell’alligatore.

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“Ma, purtroppo per lui, l’ultima lezione che il piccolo Stevie imparò nella sua vita terrena fu che non basta evitare di pensare a una cosa perchè quella cessi semplicemente di esistere.

E il lupo, infatti, se lo mangiò.”

Giuditta e l’orecchio del diavolo. Fare la cosa giusta è dovere di tutti.

Giuditta e l’orecchio del diavolo. Fare la cosa giusta è dovere di tutti.

È giunto il momento per me di tirare giù dalla pila dei libri che ancora non ho letto un volume ho desiderato leggere fin dal primo momento che no ho visto la copertina. Il Premio Strega Ragazzi 2022 nella categoria 11+: Giuditta e l’orecchio del Diavolo opera di Francesco D’Adamo.

Una copertina e un titolo che ti ammaliano sono solo i primi passi verso una storia che ti stritola nel freddo dell’autunno del 1944.

In una vallata adagiata tra le Alpi, un giorno del nostro tempo, arriva uno scrittore che inciampa in una storia raccontata da un anziano del piccolo paese di Acquadolce.

È una storia che ha dell’incredibile e Tonino, l’anziano di cui vi ho parlato sopra, è sicuro che lo scrittore non crederà nemmeno ad una parola.

Giuditta e l’orecchio del diavolo è uno di quei racconti che si deve fare nel luogo in cui si originano.

Forse è per questo che Tonino porta il suo interlocutore in un luogo che di per sé è un mistero e una meraviglia: l’orecchio del diavolo, un muro brunito dalla forma concava da cui, dicono, si possono sentire le voci degli spiriti e dei morti.

È un luogo che attira la fantasia di popolani e grandi pensatori.

Nei secoli addietro persino un Tiranno greco fece scavare un luogo simile da cui poter sentire tutti i sussurri dei suoi prigionieri, lo possiamo ammirare a Siracusa ed è noto come L’orecchio di Dioniso.

Questo genere di muri veniva costruito durante la prima guerra mondiale per poter avvertire l’arrivo dei nemici e poter correre ai ripari.

Tonino inizia il suo racconto e da subito si avverte il freddo, l’urgenza, la paura e al contempo la costrizione che l’Italia tutta viveva nel 1944.

Il padre di Tonino era il capo di un gruppo partigiano. Un uomo enorme che nell’immaginario dei suoi due figli era un eroe di Salgari e per questo lo avevano soprannominato Sandokan.

Sandokan e i suoi vivevano lontani dalle loro famiglie, in quei luoghi dove nemmeno gli spiriti oserebbero andare se solo provassero freddo e paura.

Le famiglie vivevano in maniera semplice e i bambini vivevano di storie di avventure, racconti partigiani e lavori dei campi o nelle stalle con le bestie.

In paese non vivono solo le famiglie di coloro che lottano per la libertà ma, come c’è da aspettarsi, anche quelli che si sono conformati ai dettami del regime nazifascista ma, da “Bravi” quali sono, non osano denunciare i loro concittadini partigiani perché troppo impauriti dalla fama di Sandokan e da quello che farebbero loro le famiglie dei partigiani, parroco compreso.

Giuditta e l’orecchio del diavolo è una storia partigiana.

Una storia corale che esprime tutto il suo coraggio a partire da una ragazzina arrivata in una notte buia in casa di Tonino e suo fratello Giulio.

Giuditta è ebrea e i suoi genitori sono stati portati via dai “Todeschi”, soccorsa da amici della resistenza viene portata ad Acquadolce perché sia al sicuro.

Caterina, la madre dei due ragazzi, aveva dovuto decidere in fretta e senza il consiglio di suo marito: prendere o non prendere in casa una bambina bisognosa, cieca ed ebrea.

Delle volte il coraggio si nasconde nei gesti d’impulso.

Giuditta è una ragazzina strana, tutti credono che sia una strega e tutti la conoscono come Maria figlia della zia di Tonino e Giulio.

Giuditta è forte, indipendente e illuminata da un fuoco che può ardere solo in chi conosce nel profondo il terrore ma sa piegarlo a proprio favore.

È solo una bambina direte voi.

È più coraggiosa di molti di noi vi dico io.

Vede molto meglio di tutti noi, anche senza poter usare i suoi occhi che sono specchi verso il profondo dell’animo umano.

In compagnia di cane Giuseppe, ogni giorno siede al trono dell’orecchio del Diavolo e ascolta…

Si dice anche che la bambina parli con gli animali.

Non so dirvi se questo sia vero ma cane Giuseppe, che non aveva mai ubbidito prima, ora è la sua spalla fidata e verrà insignito della bandana partigiana.

Cane Giuseppe è finalmente la vendetta di Useppe e Bella de La Storia della Morante e si prenderà quello che è suo: la giustizia per la sua sorte e nessuno si dimenticherà più di cosa veniva fatto ai bambini del suo tempo.

Questa è una mia suggestione ma i libri servono anche a questo.

Giuditta e l’orecchio del diavolo non è una storia facile anche se è scritta per ragazzi.

Con un registro di facile comprensione Francesca D’Adamo sferza ventate di gelo a chi ancora non ha compreso che fare la cosa giusta non è affare ad appannaggio esclusivo degli eroi.

Giuditta e l'orecchio del diavolo

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Fare le scelte giuste non è difficile come sostiene qualcuno. È facile, perbacco, l’hanno capito anche i lupi!

Elettra. La tragedia di Sofocle rinarrata da Jennifer Saint.

Elettra. La tragedia di Sofocle rinarrata da Jennifer Saint.

Nel 409 a.C. Sofocle mise in scena la storia di una delle figlie di Micene. Suo padre era il grande Agamennone, il re che (si dice) portò i greci alla vittoria su Troia; sua madre era Clitennestra, la sorella di Elena che fu colei per cui (si dice) sia scoppiata la guerra di Troia. Lei, la nostra protagonista, era sorella di Ifigenia, di Crisotemi e Oreste: il suo nome è Elettra.

Sofocle non fu l’unico a scrivere una tragedia sulla principessa ma nelle altre opere, per esempio quella di Euripide, non troviamo l’Elettra che Jennifer Saint ha voluto che conoscessimo.

Come nello stile delle tragedie del teatro greco la Saint scrive usando più voci, quella di Clitennestra e quella di Cassandra, che al lettore possono sembrare troppo preponderanti al confronto di quelle della principessa.

È vero, Clitennestra e Cassandra hanno fin troppa voce in questo libro e potrebbe capitare di chiedersi che fine abbia fatto la donna da cui il romanzo prende il nome.

In fondo, Sofocle affida tutta l’azione ad Oreste.

Ma dovete mettere tutto in prospettiva. Questa non è la mera storia della principessa micenea ma anche una sorta di omaggio al tragediografo che di Elettra ci restituisce il furore.

Elettra non è colei che attua le azioni più importanti della vicenda ma ne è il motore e il carburante.

La regina Clitennestra e la principessa Cassandra sono coloro che conoscono tutto ciò che c’è da conoscere sul padre che Elettra tanto ama.

Come Oreste è la mano che gli dei mandano alla vendetta, Clitennestra e Cassandra sono le custodì della verità che Elettra si rifiuta di vedere.

Faremo un processo ad Agamennone? Credo che la sua storia e il suo destino abbiano già fatto abbastanza per questo tracotante personaggio che non conosceva limiti.

In questo Elettra è davvero sua figlia: la mancanza di percezione di tutte le realtà davanti ai suoi occhi è sbalorditiva.

Anche questo elemento della personalità di Elettra è ben reso dalla disposizione dei capitoli dell’opera della Saint: Elettra è talmente distante dalla vista del lettore che ogni volta che appare la percezione che si ha di lei è così fuori fuoco dalla realtà da renderla poco più che la bambina inerme delle Coefore di Eschilo o della donna rosa dai sensi di colpa di Euripide.

Ho dovuto riprendere in mano appunti di scuola e le fonti per rendermi conto dell’enorme lavoro di progettazione di questa storia, a prima vista non lo avevo notato e mi sono sentita piuttosto sciocca.

Ma, a questo punto, mi devo chiedere: i giovani che di Elettra conoscono solo l’appartenenza alla mitologia, capiranno questo gioco di sguardi tra la storia del teatro greco, la protagonista e il retelling mitologico?

Il linguaggio è quello giusto, forse manca una piccola spinta verso la giusta direzione e spero di essere stata di un qualche contributo in merito.

Elettra è un personaggio dalle molte facce ma il sentimento che la tiene in piedi è l’Ira che come avrete modo di vedere non è mero appannaggio di Achille.

Tutti ricordano la spiaggia di Troia ma non che sia stata la vita della mite Ifigenia a permettere che le navi partissero dalla Focide; la storia da la colpa alla fedifraga Elena e alla pazza Clitennestra della sorta del più grande dei greci ma mai ricordano che pur di avere lo scettro Agamennone ha mandato a morte la sua stessa progenie ingannandola nella più vile delle maniere.

Per la gloria e l’onore direbbero i grandi condottieri ma per è per la follia, la cupidigia e il possesso che tutto si è messo in moto.

Elettra è il secondo libro del progetto editoriale di Jennifer Saint sulle donne del mito. Il primo, sempre edito per Sonzogno, è Arianna mentre il prossimo sarà su Atalanta.

Elettra

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Bramavo di prendere il posto di una schiava che non aveva nulla, eccetto la cosa che io volevo di più al mondo: l’abbraccio di mio padre.

Dendera. Il realismo magico di Yūya Satō si ammanta di innocenza per poi sbranarvi.

Dendera. Il realismo magico di Yūya Satō si ammanta di innocenza per poi sbranarvi.

Dendera è un nome che evoca antiche rovine, antiche dee e templi ricchi di reperti di rara bellezza. Ma non siamo in Egitto.

Siamo in un luogo dove la neve diventa piuma di corvo, dove il silenzio inghiotte ogni cosa e porta via gli inuditi ultimi lamenti di chi viene lasciato sulla montagna.

Yūya Satō ci trasporta in un luogo indefinito del suo Giappone, dove pennella un’atmosfera di ovattata realtà tra le nevi ma non ha paura di sporcare l’immobilità con il rosso della furiosa paura.

Una volta, tanto tempo fa, esisteva tra le popolazioni più antiche un’usanza.

Questa tradizione, ai nostri occhi potrebbe sembrare piuttosto barbara e impensabile da applicare al giorno d’oggi. Ma non esisteva una società come la nostra in quei lontani momenti di storia e per legge chi era troppo vecchio per contribuire alla società veniva…allontanato.

Il Villaggio imponeva uno stile di vita immacolato. Gli anziani, dopo aver compiuto settant’anni, dovevano compiere l’ascensione per raggiungere il paradiso.

Coloro che ascendevano indossavano uno Yukata bianco, venivano accompagnati sulla montagna dai loro familiari e poi lasciati lì.

La neve, il freddo, i corvi facevano compagnia a coloro che si mettevano in cammino per il paradiso.

Un passo alla volta.

Fino a che i piedi non erano troppo gelati. Fino a quando il corpo non si sentiva troppo intorpidito dal freddo. Fino al momento in cui ci si addormentava sognando la luce e tutti coloro che aspettavo dall’altra parte del cancello per vivere, finalmente senza più affanni, insieme per l’eternità.

Come vi sembra? È una fine poetica se solo vi sforzate di vederla sotto una determinata luce.

Dendera è un mondo tangibile e riconoscibile ma vi inonderà di sussurri e non potrete scappare.

Kayu ha accettato il suo destino, è pronta ad abbracciare la morte come una vecchia amica.

Ma…mentre la neve le sta preparando il suo ultimo giaciglio, i corvi le cantano il loro ultimo commiato e il gelo le accarezza i capelli come fosse ancora una bambina, accade qualcosa.

Quando Kayu si risveglia non è più nel bosco ma in un piccolo insediamento: Dendera.

Solo donne, tutte sopravvissute alla montagna, una piccola comunità di anziane che ha scelto di continuare a vivere a dispetto di coloro che per loro avevano deciso Morte.

Kayu voleva morire, non vivere. Questo era contravvenire alle leggi della vita e significava anche che non avrebbe più potuto ascendere al paradiso perché aveva osato rubare un esistenza che non le era più dovuta.

La comunità di Dendera è povera, le donne si adoperano senza sosta conducendo una vita funestata da una caccia scarsa, la mancanza di utensili e di raccolto ma vivono ancora.

Alcune vivono per dimenticare di essere state abbandonate e creare un luogo da poter chiamare casa; altre vivono per distruggere coloro che le volevano sole in vita e sole nella morte.

Kayu scopre presto che, nonostante quanto le altre donne si ostinino a professare una vita serena, gli equilibri all’interno di Dendera sono fragili.

Le due fazioni sono coinvolte in una lotta silenziosa.

A Dendera, ricordate, le donne sono tutte anziane e alcune di loro si apprestano ai 100 anni.

Sono poche e la possibilità di attaccare una comunità giovane, senza l’aiuto di armi, è piuttosto un suicidio che una missione.

Dendera è un microcosmo che vive nella neve immacolata.

La carestia di cibo non riguarda solo loro ma anche l’orsa che vive sulla montagna.

L’orsa e Dendera ingaggiano una battaglia che causerà una spirale di sangue, dolore e morte.

La fame, la paura, la guerra e la pestilenza sono pessime consigliere e quando la lotta inizia non c’è modo di fermarla se non pagando un tributo di morte.

Ma l’orsa non è l’unico araldo di distruzione che funesta Dendera e questa minaccia non ha un nome, non ha una forma ma uccide.

Yūya Satō è un maestro del “realismo magico”.

Dendera si compone di pagine ammantate di silenzio e urla, dove il silenzio è palpabile come la paura.

L’inquietudine ti si posa addosso come una magia, come una coperta calda a cui non riesci ad opporre resistenza e, quando il sonno sopraggiunge, non si può far altro che arrendersi.

Vi ricordate che, tempo fa, vi ho parlato di Le Impure. Sovvertire l’ordine costituito passa dal cliché di narrazione? Dendera è la prova che si può parlare della condizione delle donne e di tematiche sociali senza dover rendere tutto uno show di marionette.

Dendera è un romanzo di sensazioni, concetti e riflessioni vere ed è questo che lo rende speciale.

Dendera

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difficilmente mi farò ammazzare senza opporre resistenza…“. Si rese conto di come quella fosse la comune convinzione di tutte le donne che erano sfuggite all’ascesa rituale alla montagna per poi vivere a Dendera.