Blackwater I: La piena. La saga che travolge il pubblico.

Blackwater I: La piena. La saga che travolge il pubblico.

Buongiorno viaggiatori, oggi vi parlo di Blackwater: La piena, la saga edita da Neri Pozza che sta incantando i lettori.

Normalmente non leggo questo genere di libri ma, non so spiegarvi il motivo, questa volta c’era qualcosa che mi spingeva a iniziarne la lettura.

Così dopo aver recuperato tutta la serie, pubblicata dalla casa editrice a distanza di 15 giorni l’uno dall’altro, ho preso in mano il primo volume.

Lo ammetto Blackwater: La piena mi ha lasciata senza parole.

Protagonisti indimenticabili che trascinano il lettore dentro la storia all’istante e da quel momento è impossibile smettere di leggere.

Un libro tira l’altro e per fortuna sono stati pubblicati tutti.

La storia si apre con Oscar Caskey e Bray il suo domestico che stanno perlustrando la città di Perdido dopo l’alluvione che ha colpito facendo esondare il fiume.

Trovano Elinor all’Osceola Hotel. Aspettava lì tutta tranquilla come se nulla fosse accaduto, per niente scomposta.
E qui iniziano le prime domande.

Da dove è arrivata? Chi è?

Perché non è scappata come tutti?

Come è scampata alla furia dell’acqua? Come è potuta sopravvivere senza acqua e cibo?

Dietro Elinor si nasconde parecchio mistero.

Decidono dunque di portarla dal resto degli abitanti di Perdido, rifugio improvvisato che ha permesso loro di salvarsi.

E qui incontriamo un’altra protagonista: Mary-Love!

E a lei Elinor non piace. Lo farà capire in ogni modo. Dovrà fare i conti però con il fatto che Elinor riuscirà a incantare suo figlio Oscar e questo la disturberà parecchio.

Devo dire che la calma di Elinor mi ha destabilizzata lo ammetto, io non sarei riuscita a mantenere il controllo.

Una storia che scorre rapidamente e appassiona a tal punto da rendere impossibile abbandonare anche solo per un attimo la lettura.

Queste due donne sapranno come intrattenervi statene certi!

Elinor è una donna molto particolare, saprei come altro definirla e Mary-Love non è da meno.

Se scegliete di iniziare la lettura di questo primo volume tenetevi pronti a concludere tutta la saga.

Io vi ho avvisati.

Un romanzo carico di mistero e inquietante al punto giusto, che si lascia leggere con facilità, con un linguaggio in grado di far rivivere le atmosfere di questo racconto.

Non vi resta altro da fare che mettervi comodi perché sono certa ne vedremo delle belle nei prossimi volumi.

Questo è solo l’inizio.

Se vuoi leggere la trama di Blackwater: La Piena clicca qui.

Oscar sapeva che Mary-Love ed Elinor erano in grado di manipolarlo. Ottenevano sempre ciò che volevano. A dire il vero si sarebbe potuto dire la stessa cosa di tutte le donne censite a Perdido, Alabama. Certo, nessun uomo avrebbe mai ammesso di essere manovrato dalla madre, dalla sorella, dalla moglie, dalla cuoca o dalla prima femmina che lo accostasse per la strada: la maggior parte di loro, in realtà, non ne era nemmeno consapevole. Oscar invece lo sapeva bene. Ma per quanto conscio della propria inferiorità, della sua reale mancanza di potere, era incapace di liberarsi dalle catene che lo imprigionavano.

L’isola dei morti. Arnold Böcklin credeva fosse un luogo tranquillo.

L’isola dei morti. Arnold Böcklin credeva fosse un luogo tranquillo.

Se vi portassi a fare un viaggio a poche miglia dalla costa ligure? Andiamo a Zoagli, una piccola isola in cui non va mai nessuno e che è apparsa nelle tele di Arnold Böcklin. La chiamano L’isola dei morti, anche se il pittore la dipinse chiamandola “un luogo tranquillo”. Io l’ho scoperta quando Fabrizio Valenza mi ha donato una copia del suo libro: L’isola dei morti.

Ora che vi ho affascinato con questa tela dal fascino mistico e che siete volontariamente con me su questa barchetta in mezzo al mare, ora che non potete tornare indietro se non a nuoto, vi informo che è il 1885 e che non esistono il GPS e il cellulare e sull’isola non c’è che UN telefono ma l’unico numero che potete comporre è quello per richiamare il vostro Caronte.

Non preoccupatevi, né Dante né Virgilio verranno a salvarvi e, in fondo, non ce n’è bisogno. Andiamo in un posto tranquillo.

Di recente hanno tutti una passione morbosa per Mercoledì di Tim Burton ma io la amavo quando ancora il pubblico internazionale la riteneva la degna figlia di una coppia fuori testa, quando se ti chiamavano Mercoledì o Morticia era per insultarti e non per farti un complimento.

E questo cosa centra con L’isola dei morti?

Niente ma volevo dirvi che quando si parla di comportamenti riguardo alla morte io ci sono.

Un archeologo che non osa andare dove va un antropologo culturale sarebbe lo zimbello di tutti.

Potete accorgervene già dal dipinto, chi non ha pensato ai Re stregoni di Angmar guardando quelle sponde, evidentemente non ha una passione per Tolkien e forse nemmeno per Tim Burton, ma di fronte a voi ci sono grotte che sembrano tombe.

L'isola dei morti

Andrea Nascimbeni è un antropologo e decide di voler indagare sul luogo, sulle tradizioni del luogo in merito alle inumazioni e come queste siano rimaste intatte nonostante il cattolicesimo.

Ve l’ho già detto che L’isola dei morti non è una meta turistica?

Il nostro studioso si accorge presto che c’è qualcosa di molto più che misterioso in questa isola. Sì, perché nessuno ne vuole parlare e chiunque fa di tutto per distoglierlo dalla sua intenzione.

Vi svelo in segreto: nessuno può dire a uno studioso dove non può andare a ficcare il naso. Se conoscete Indiana Jones o Lara Croft lo sapete bene.

Se avete sentito qualche diceria sulla spedizione che scoprì la tomba di Tutankhamon, ecco ora sapete anche che può non andare come speravate. Ma la storia sulla maledizione non è vera, non credete a tutto diamine.

Andrea, che forse ha più spirito di sopravvivenza di quanto lui stesso crede, si presenta a Rosina (che è la proprietaria dell’unico posto che potete chiamare locanda) con un nome diverso.

Forse perché qualcosa, oltre alle rimostranze di tutti riguardo al viaggio, non lo convince.

Nemmeno la locandiera lo vuole lì. Andrea insiste a chiamare il luogo L’isola dei morti, Rosina dice che per gli abitanti quel luogo non ha nome.

La locanda si chiama L’ultimo posto, vi è chiaro?

In effetti l’antropologia del luogo è singolare e il Nascimbeni se ne accorge prestissimo.

Benedetto ragazzo, una delle prime raccomandazioni che gli è stata fatta è quella di non farsi vedere dagli abitanti; la seconda è di andarsene prima del 32 di ottobre.

No, non mi sono sbagliata.

Durante il vagabondare del nostro personaggio, si è profilata davanti ai suoi occhi una pletora di individui che potrebbero farvi giungere ad una conclusione sbagliata, è successo anche a me.

Ma, come vi dicevo prima, non bisogna credere a tutto.

L’isola dei morti non si chiama così per il motivo che credete voi.

Alti cipressi adombrano il teatro di camere funebri che Andrea non tarda a trovare a caro prezzo.

Tra tutte le ipotesi che potrebbero giustificare una tale consuetudine funeraria, non sono sicura che il sesto senso di Andrea abbia subodorato quello esatto.

Io lo avevo immaginato? Sapete, quando noi studiosi siamo abituati a conoscere le abitudini di popoli molto antichi, anche quando questi popoli delle loro abitudini non ci hanno lasciato nulla se non i luoghi, ci capita spesso di fare la cosa più semplice: ovvero metterli in correlazione.

L’Isola dei morti non ha abitudini diverse da altre culture, solo che, per il nostro cervello, la possibilità che queste si verifichino in una società occidentale e sotto al sole della cattolicissima chiesa di Roma, rende la supposizione improbabile.

Quindi se una cosa sembra improbabile, viene scartata e capita di fare la figura degli sciocchi. Può capitare che alla fine tocchi riscrivere la storia delle scoperte sull’Umanità, non è una tragedia.

L’isola dei morti è antica e vive nel mondo al tempo presente.

Insomma, se nessuno vuole che gli esterni si facciano gli affari loro una ragione ci deve essere, giusto?

Quando la scopriremo sappiate che qualcuno deve chiamare Caronte, che si chiama Andrea anche lui, e deve farlo anche in fretta prima che succeda l’irreparabile.

Vi avevo avvertito che qui urlare AIUTO non sarebbe servito, vero?

L'isola dei morti

Volete leggere L’isola dei morti? Allora schiacciate la parola LINK

Mi auguro che ciò che leggerete nelle seguenti pagine, a voi solo dirette e non per gli occhi della Scienza, non vi induca a giudicarmi, ma che, anzi, possano muovervi a pietà della mia vita e della disperazione che la corrode.

La stirpe e il sangue

La stirpe e il sangue

Sono alla ricerca di viaggiatori dal sangue freddo, in questo periodo in cui il velo tra vivi e morti si assottiglia, ho bisogno di compagni che abbiano voglia di scavare dove l’oscurità è più profonda, pronti ad affondare i canini ne La stirpe e il sangue.
Ci aspetta una macchina del tempo sgangherata e che non ha passato l’ultimo collaudo, ma noi non abbiamo tempo per queste inezie.
Anno 1442, Valacchia, terra brulla e inospitale, la fame contorce le budella e il terrore per l’esercito di Murad II toglie il respiro.

Qualcuno ha il coraggio di nascere in quel periodo.

Una creatura malata in un luogo malato, senza futuro, con poche speranze di vita e l’esercito ottomano che incendia la sua casa,

nell’oscurità più crudele nasce Radu.


Non amo i libri definiti dell’orrore, quelli dove tutto ruota attorno a mannaie e sangue, amo i libri come questo.


Inquietudine profonda, curiosità mista ad una sottile nausea, potere, tradizione e magia: La stirpe e il sangue.


I disegni che accompagnano l’inizio di ogni capitolo sono ammantati da arcani significati, tengono lo sguardo del lettore incollato alle gocce di sangue, a quegli occhi sofferenti che nascondono una profonda saggezza ancestrale.


L’ho divorato, respirato, sognato e ora ne voglio ancora.

Radu geme sfinito.
se Maria avesse un coltello aprirebbe uno squarcio nel lupo…
ma un coltello non ce l’ha.
Le restano solo le mani, le unghie e il bastone.
La carne della bestia cede, il sangue è caldo.
Maria colora con le dita luride le gote del bambino,
gli colora dalla faccia il pallore mortale.

L’affannata ricerca di certezze si trasforma in una corsa senza fiato, per sfuggire al destino per niente benevolo, ma il grembo di Maria è colmo di conoscenza, lei ha chiara la sua lotta e nessuno la potrà fermare.
Maria conosce molte forme di soppruso, la sua pelle ne porta i segni e ai suoi figli sembrebbe spettare lo stesso destino.


Ma il sangue è vita


e ne La stirpe e il sangue, Lorenza Ghinelli ci racconta una favola oscura fatta di crudeltà e speranza, morte e tenacia, sangue e saggezza.

“sono vivi dunque” commenta Maria
“buono a sapersi”
Poi si inginocchia e gli afferra la lingua, tagliandola di netto.
Uno strillo acuto di bestia sgozzata strappa l’aria.
“Avremo di che mangiare per lungo, lungo tempo.
Vado a preparare le erbe per curarlo, deve durare”

Non solo morte e crudeltà, nel dolore più grande i nodi della solidarietà sono più stretti e quando le donne soffrono, insieme cercano la soluzione, in una complicità fatta di sguardi millenari.
Sono sempre state lì e quello è sempre stato il loro compito.


Non opponete resistenza dunque e lasciatevi sopraffare dai sogni di sangue.

Per leggere la trama clicca qui

Un corpo ben nutrito,

una carne delicata

non è che un vestito di vermi e di fuoco.

Hélinant de Froidmont

I delitti di Whitechapel. Jack non interessa a nessuno.

I delitti di Whitechapel. Jack non interessa a nessuno.

Nel 1888, a Londra, in un quartiere degradato e densamente popolato, una persona è diventata famosa per una serie di omicidi. Sapete di chi si sta parlando? Oh, certo che lo sapete ma nella storia che viene narrata nel libro di cui vi voglio parlare la sua presenza non è il punto focale. Noi parliamo dei delitti. Meglio, Guido Sgardoli e Massimo Polidoro ci narrano I delitti di Whitechapel edito per DeA nel 2022.

Prima di parlarvi della trama de I delitti di Whitechapel voglio portarvi in una riflessione che ho trovato nel libro.

Tutti, volenti o meno, conoscono la leggenda di Jack lo squartatore, negli anni questa figura senza volto ha riscosso molto successo nell’immaginario di autori, lettori, giornalisti, veri detentori della verità, complottisti e chi più ne ha più ne metta, anche io non posso fare a meno di rimanere invischiata nel mistero che il serial killer di Whitechapel ha generato.

Ma, perché ci affascina? Perché smaniamo tutti per scoprire la sua verità e non quella delle sue vittime?

Perché l’epoca in cui ha vissuto lo fa sembrare un personaggio gotico? Perché è riuscito farla franca nonostante lo stesse cercando tutta Londra?

Perché è sfuggente e, allo stesso tempo, ovunque?

Se oggi, tutto ad un tratto, scoprissimo che Jack non era intelligente, nemmeno particolarmente furbo, una persona ordinaria e non del tutto sveglia che ha compiuto i delitti solo in virtù del fatto che poteva perché nessuno avrebbe fatto domande sulle donne che ha ucciso?

Crollerebbero le teorie sul praticante di magia, appartenente a logge massoniche, della cerchia dei potenti.
Salterebbero tutte le congetture sull’inafferrabile Jack.

Il suo nome non era nemmeno quello. Viene da una favola per spaventare i bambini: Jack dai tacchi a molla.

Lascio a voi la conclusione su cosa pensare dell’assassino.

Il vero mistero, la verità de I delitti di Whitechapel, sono le vittime.

Le vittime accertate sono cinque ma… quelli come Jack raramente si accontentano.

La storia narrata da Guido Sgardoli e Massimo Polidoro ha una forte componente storica, fatta di ricerche, di ricostruzione dell’ambientazione, di ombre e luci nella caratterizzazione dei personaggi.

Quella Londra non esiste più ma il lettore deve poterla vivere.

Il West End di oggi, la Whitechapel di oggi, non ha nulla a che fare con quel crogiuolo di corpi e vite che viveva in case non agibili e in una società che non si può paragonare al quartiere spumeggiante che potete visitare al giorno d’oggi.

I due autori hanno ricreato un mondo.

Non quello del cinema ma il vero mondo di Mary Ann, Annie, Elizabeth, Catherine e Mary Jane.

È necessario chiamarle per nome. Erano persone oltre che vittime.

La storia narrata ne I delitti di Whitecapel segue Sybil che giunge a Londra in seguito all’omicidio di sua madre Catherine.

Madre e figlia non avevano un rapporto idilliaco. Sybil vive con sua nonna e vede sua madre solo quando quest’ultima si presenta per chiedere denaro.

Ma, in seguito all’omicidio, qualcosa di incompiuto e irrisolto, morde l’animo della ragazza. Sembra assurdo anche a lei ma vuole conoscere sua madre.

Sybill non si rassegna a quello che la stampa e la polizia dice di Catherine.

È convinta che Caherine fosse molto altro, che non fosse una prostituta e che ci fosse ben più di una ragione se la vita le avesse rifilato tutte quelle carte sbagliate che l’avevano portata all’indigenza.

Non senza una buona dose di ingenuità, Sybill si addentra a Whitechapel e man mano raggomitola il filo dell’esistenza non solo di sua madre ma di tutte le vittime e dei loro legami all’interno della loro esistenza.

Avventurarsi in un luogo così ostile comporta pericoli e ricordiamo che Jack era famoso per essere ovunque.

Nel 1888 esisteva ben più che una Londra.

Come vi dicevo, questo non è un romanzo sull’assassino. Jack non interessa a nessuno.

I delitti di Whitechapel è un romanzo sui misteri taciuti che sono le Vite delle vittime: Mary Ann, Annie, Elizabeth, Catherine e Mary Jane.

Vuoi leggere la trama de I delitti di Whitechapel? Schiaccia la parola Link.

La donna misteriosa aveva afferrato nuovamente il ciondolo e l’aveva aperto, guardandoci dentro. Poi, dopo aver rivolto a Sybil un sorriso, era scomparsa dietro le tende. E quando la ragazza le aveva scostate, non aveva scoperto che uno spazio vuoto affacciato sulla finestra e, al di là di essa, i tetti e le strade assonnate della città.

Abbiamo sempre vissuto nel castello. Magia narrativa che sposta il confine fra bene e male.

Abbiamo sempre vissuto nel castello. Magia narrativa che sposta il confine fra bene e male.

La Jackson si conferma ancora una volta maestra dell’inquietudine, in Abbiamo sempre vissuto nel castello riesce a far nascere nel lettore un oppressivo senso di smarrimento, pur descrivendo normalissimi gesti quotidiani.

Immaginate un semplice paese del nord america circondato dalla campagna: gente che chiacchiera al bar, bambini che giocano e intonano filastrocche, donne indaffarate tra panni e pranzo.

Ora spostate lo sguardo verso la periferia, proprio dove inizia il bosco, dove la grande casa della famiglia Blackwood troneggia da tempo immemore. Il cancello è chiuso, nessuno si avvicina più e le canzoncine intonate dai bambini del paese si riferiscono sempre alla grande casa in periferia.

I maschi del paese si mantenevano giovani spettegolando,

e le femmine invecchiavano aspettando in silenzio che figli e mariti tornassero a casa,

mentre una grigia stanchezza malvagia si impossessava di loro.

Se trattenete un attimo il fiato, potrete sentire il suono di un pendolo.

Ritmicamente, giorno dopo giorno,egli scandisce i vari compiti della giornata:

 Merricat vai a fare la spesa, è tempo di preparare il pranzo, è la giornata da dedicare alle pulizie del grande salone. Tutto perfettamente calcolato, giorno dopo giorno,  come una danza sicura e confortevole, i cui passi non cambiano mai.

Merricat, Costance e lo zio invalido.

Dimenticavo Jonas,il fedele gatto, questa è la famiglia Blackwood, o ciò che ne resta.

Fra le righe di Abbiamo sempre vissuto nel castello si cela una malsana armonia che si imprengna nelle mura della grande casa, una coltre di illusione fatta di dolcetti appena sfornati e lenzuola pulite.

Tic tac, tic tac, pare quasi di osservare un delicato dipinto: due giovani sorelle e uno zio che sorridono nel loro castello.

La strenua difesa dell’immobilità è il segreto per preservare quella gioia innocente, o folle.

Accade però che il nostro pendolo a volte si fermi, e allora qualcosa rompe inevitabilmente la pace quotidiana.

Anche il nostro viaggio si ferma per un attimo, in uno spazio temporale in cui la comprensione dei fatti non coincide più con l’immagine dei personaggi, sembra quasi impossibile eppure il male si annida dentro le case silenziose, allora rimaniamo attoniti, in preda ad una strana inquietudine mista ad incomprensione, nell’osservare lo stravolgimento dei perni portanti del racconto, tutto è esattamente ciò che non dovrebbe essere.

Conosci il sapore dell’arsenico?                                                     

Per fortuna quasi sempre il pendolo  riprende il consueto ticchettio riportando tutto nell’apparente ordine, o forse la nostra psiche è ormai irrimediabilmente scossa.

Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l’Amanita Phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti.

Shirley Jackson, indiscussa signora del male,è stata in grado di creare un romanzo delicato come la pelle di un serpente, dove  il male non si identifica con il canonico cattivo, ma con turbamenti cuciti sulla pelle viva, in grado di confondere e annebbiare la mente, ci avvelena pagina dopo pagina, con piccole gocce di sospetto ben dosate, perché vuole farci arrivare fino alla fine, confusi e storditi, senza riuscire a comprendere il confine fra bene e male, follia e giudizio, senza sapere più chi sono i veri mostri.

Abbiamo sempre vissuto nel castello è un libro scritto da Shirley Jackson ed edito da Adelphi nel 2009

Vuoi leggere la trama? Clicca sul link

Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto vieni.

Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.

Merricat, disse Connie, non è ora di dormire?

In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire!