Il viaggio dentro la vita di una famiglia è sicuramente affascinante e al contempo estremamente pericoloso, vengono svelate delle intime quotidianità che a volte risultano essere la miccia in grado di innescare la distruzione della stessa: Con i denti.
Parlare di questo libro non è semplice, gli argomenti stessi di cui parla toccano delle parti vive dentro di me, portandomi a riflettere profondamente su dinamiche poco salutari che appartengono alla famiglia.
Kristen Arnett scrive un romanzo familiare spaventosamente amaro e crudelmente ironico.
Una famiglia composta da Sammie, Monika e il loro figlio Samson, tanto desiderato.
Ho avuto modo di leggere diversi racconti sulle dinamiche familiari di questi tempi, ma questo è diverso dagli altri.
All’inizio pensavo che la diversità fosse perché si parla di una famiglia queer, ma in realtà ciò che mi ha colpito maggiormente è il modo in cui la Arnett riesce magistralmente a parlare dei disagi della vita familiare.
il perbenismo che vuole la famiglia perfetta e felice crolla rovinosamente man mano che le pagine scorrono.
E’ difficile ritagliarsi momenti di vera intimità, è difficile sopportare la definizione di ruoli ben precisi, ma la realtà è che è difficile vivere la famiglia.
Con i denti parla in maniera diretta, non descrive la famigliola felice ma analizza attraverso le fragilità dei personaggi le problematiche che spesso portano alla rovina della stessa.
Facendo questo non fa altro che descrivere, anche se in maniera esacerbata, la famiglia reale.
Primo grande problema è la definizione di ruoli senza margine di elasticità.
Monika va a lavorare, è un avvocato di successo, è sempre elegante, ben vestita e rientra la sera stanca e con poca voglia di collaborare alla vita che si svolge fra le quattro mura di casa.
Sammie ha portato in grembo il figlio tanto desiderato da entrambe e ora si trova incastrata dentro un ruolo che ama, ma che riesce ad accettare solo parzialmente, poiché non le lascia spazio per nient’altro, nemmeno per se stessa.
Proprio quest’ultima si trova a fare i conti con il cambiamento del suo corpo e con gli sbalzi ormonali, con la sua fragilità e anche con l’accettazione di un figlio che le appartiene soltanto per metà.
E’ lei che soffre maggiormente la vita familiare ed è lei che, anche all’interno di una famiglia queer, porterà alla luce la fatica estenuante e la frustrazione che spesso una madre a tempo pieno si trova a vivere.
Sammie rilegge la stessa pagina del libro per giorni, questo ci fa rendere conto del suo grande affaticamento mentale, non riesce ad avere amiche e si ritrova spettatrice della sua stessa vita mentre la guarda trascorrere inesorabilmente.
E pian piano si rende conto che tutto le si sta sgretolando intorno.
Madre, donna delle pulizie, perennemente impegnata e sempre più lontana dal suo sogno di famiglia, ma decisa a lottare con le unghie e con i denti.
La repressione continua del proprio malessere non può durare a lungo.
Forse l’amore è sempre al confine con la violenza. Una prigione di solitudine, rabbia e silenzi.
Samson è un bambino singolare, ha un mondo tutto suo e delle dinamiche di socializzazione molto particolari.
Il libro si apre con una Sammie distratta ed estremamente affaticata e con un episodio che farebbe accapponare la pelle a qualsiasi genitore.
Un episodio che viene sminuito nel tempo, fin quasi a mettere in dubbio il fatto che sia realmente accaduto.
Questo particolare fa già comprendere quanto le preoccupazioni di Sammie vengano prese in considerazione.
L’adolescenza di Samson non rende la vita più semplice, anzi, il ragazzo inizia a comprendere alcune dinamiche della vita ed inizia a demolire sistematicamente le scelte delle madri.
Anche se ho preferito soffermarmi sulla descrizione di un personaggio in particolare che mi ha davvero colpita, ci tengo a dirvi che non ci sono vincitori in questo romanzo, semmai sono tutti prigionieri dello stesso vortice di dolore.
La scrittura sottile ed ironica, crudele e realista è il perno trainante di questo doloroso libro.
Un romanzo che fa aprire gli occhi sulle difficoltà di qualsiasi famiglia, uno spaccato di vita e di dura realtà.
Le donne che poco alla volta stavano riempiendo il locale erano tutte vestite come quella dietro al bancone…
E Dio quanto erano giovani. Così giovani che lei si sentiva invecchiare con il passare dei minuti, come se ad ogni secondo di orologio le spuntasse un nuovo capello bianco, o un’altra ruga, o i denti le ingiallissero fino a dientare color caramello.
Le famiglie , seppur nella loro grande eterogeneità, hanno particolarità che somigliano, a volte belle, a volte meno; molto spesso alcune situazioni vengono portate all’estremo, lasciando che i ricordi ci diano sempre ragione: Pioggia sottile.
Luis Landero ci porta a Madrid, ma potrebbe trattarsi di un qualsiasi luogo nel mondo, poiché è di una famiglia qualsiasi che ci parla.
Quante volte la quotidianità viene percepita in maniera differente dai componenti di una stessa famiglia?
A volte siamo troppo colmi di rancore, altre volte insoddisfatti o con un dolore talmente grande che questo riesce a fare da lente ad ogni situazione, ammantandola irrimediabilmente di tristezza.
Altre volte siamo semplicemente troppo piccoli per riuscire a comprendere, le situazioni familiari allora scorrono attraverso occhi innocenti.
Infine si diventa grandi e guardando indietro ci si rende conto di quanto certi episodi, abbiano irrimediabilmente condizionato le scelte che ci hanno condotto fino ad oggi.
La mamma sta per compiere ottanta anni e i sentimenti sono estremamente contrastanti riguardo la possibilità di farle una festa.
Pioggia sottile un intreccio familiare che vomita dolore e risentimento.
Spesso accade anche nelle migliori famiglie.
Un padre allegro e cantastorie che con i suoi racconti ha ammaliato l’infanzia dei figli.
E una madre che, una volta perso il marito, ha trasformato il clima familiare in un incubo.
Tutti da quel giorno hanno vissuto nella costante attesa di una tragedia.
Pioggia sottile è una matassa impossibile da districare e i nodi sono fatti dalle diverse percezioni che i figli hanno avuto della stessa situazione.
I punti di vista capovolgono le questioni.
Accade così che una madre impegnata ma amorevole si trasformi in una donna senza pietà per le sue figlie, costringendole a prendere decisioni contro la loro volontà.
Pioggia sottile è la tela di un ragno.
Tu sai tutto, vero Aurorita?
Perchè sei tu che ascolti in silenzio gli sfoghi di tutta la famiglia.
Tu che ascolti ma raramente commenti, parole sempre equilibrate e attente a non cadere mai nel giudizio.
Ho spesso provato ad immaginarti: dietro la cornetta del telefono o seduta ad ascoltare pazientemente la persona che ti stava di fronte.
Ho visto quindi tutte quelle parole raggiungerti e penetrare dentro la tua pelle fino a gonfiarti, quasi ad esplodere, ma tu non hai mai sbagliato, non sei mai esplosa.
Pioggia sottile è un quadro che descrive la stessa scena, ma gli occhi che guardano vedono cose diverse.
Al centro di quella scena c’è Aurora, colei che tiene il filo narrativo dei numerosi dialoghi e sfoghi.
Le pennellate sono le incomprensioni e i fraintendimenti familiari.
Aurora però è quasi impossibile da immaginare, ma senza lei il racconto stesso imploderebbe.
Eppure non è nemmeno un personaggio risolutore, perché, si sa, quando una famiglia si trascina silenzi per anni, certi rancori diventano impossibili da risolvere.
E ancora una volta non c’è un buono o un cattivo, un vincitore e un vinto.
C’è la famiglia.
C’è qualcosa nelle parole che,
di per sé,
comporta un rischio,
una minaccia,
e non è vero che il vento se le porta via facilmente come dicono.
Un racconto intricato e non molto semplice da seguire, interessante ma impegnativo e pregno di profonda amarezza.
Se amate i racconti familiari, vi invito ad entrare nel labirinto di Pioggia sottile.
Quando si perde qualcuno che in un modo o nell’altro, ha lasciato un segno nella nostra vita, non ci si abitua alla mancanza e si ricerca in ogni modo il ricordo, in questo a volte ci vengono in aiuto le Cose che non ho buttato via.
I ricordi per me hanno tante forme, un piccolo quadernetto con simboli della cabala, un cristallo, una foto sgualcita, un anello.
Ciascuno di quegli oggetti intrappola un frammento di anima a cui ho annodato un ricordo, a volte prendendoli in mano sorrido, altre volte piango.
In realtà sono una persona talmente legata ai ricordi che ho scelto di vivere in una casa che respira vite passate ad ogni mattonella, che custodisce ricordi in ogni crepa.
In questa casa ho poi aggiunto altri ricordi: i libri di mio padre.
Ogni tanto li sfoglio con la pretesa di una rivelazione, sperando di pescare un ricordo sommerso dalla polvere o di percepire un odore, una sensazione.
Alle volte mi sembra di vedere le sue dita che voltano la pagina, la forma delle unghie, la maniera unica e particolare di percepire lo spessore del foglio.
Anche per me sono tante le Cose che non ho buttato via e delle quali non mi disferò mai.
Il titolo mi ha colpito proprio per tutti i motivi che vi ho appena raccontato, avevo voglia di immergermi nella vita di qualcuno che ha saputo legare frammenti di vita ad oggetti vissuti.
Marcin Wicha ci racconta di sua madre, di attimi di vita vissuta insieme e del suo essere una donna particolarmente risoluta ed ingombrante.
Lo fa attraverso gli oggetti della sua casa.
Non scompariremo senza lasciare traccia.
E persino quando scompariremo,
rimarranno le nostre cose,
polverose barricate.
La grande libreria faceva da cornice alla vita della famiglia e ne ha assorbito le varie sfumature.
Il profilo delle copertine invecchiate, gli odori della quotidianità che il libri hanno assorbito al loro interno fondendoli insieme ai racconti.
Tutto diventa un pretesto per perdersi in un istante passato.
Wicha in Cose che non ho buttato via, ci fa conoscere i vari aspetti della madre attraverso l’analisi dei libri e si troverà a dover decidere di quali disfarsi e quali tenere.
La scelta risulta spesso molto ardua perché la madre si dilettava nel dispensare commenti per molti dei libri letti.
Scelte complicate, anche perchè il timore è quello di perdere una parte di quei ricordi oltre agli oggetti.
Ed ecco che fra le pagine l’autore si ritrova a soffermarsi su episodi a volte ironici, che aiutano a disegnare il quadro della madre.
Una donna ferma nelle sue decisioni, ma figlia di un’epoca difficile che le ha fatto indossare la corazza, che non abbassa lo sguardo di fronte a nessuno.
Si respira l’amore immenso di un figlio per la madre, la voglia di renderla felice anche dopo la sua morte, di non deluderla mai.
Mia madre non ha lasciato massime,
perle di saggezza o comandamenti.
Troppo prudente per esordire con una prima opinione,
esplodeva invece nelle risposte.
Nelle reazioni.
Nelle derisioni.
Sempre pronta a intervenire quando qualcuno si dava troppe arie.
Non pensate però che questo sia un libro triste.
Le pagine scorrono con la sensazione che lo scrittore sia sereno del descriverci i vari episodi, spesso si percepisce una velata ironia.
Devo dire che questa scelta narrativa mi ha lasciato un po’ perplessa almeno all’inizio.
Questo però è un libro fatto di sensazioni crescenti, come se l’autore stesso, nella stesura del libro, scelga di lasciare andare le briglie delle emozioni gradualmente.
Fino a raggiungere l’apice nel racconto finale.
In cui il dolore non è più velato ma diventa quasi tangibile.
La scelta narrativa di alternare i suoi pensieri confusi ai fatti che stavano accadendo, aiuta il lettore ad entrare con maggiore empatia nel suo animo.
Un libro da esplorare con i sensi più che con gli occhi e che descrive un legame che va ben oltre la vita.
Le biblioteche sono la testimonianza delle nostre sconfitte di lettori. Sono pochi i libri che davvero ci sono piaciuti. Ancora meno quelli che ci continuano a piacere anche dopo una sucessiva lettura. La maggior parte sono ricordi delle persone che volevamo essere. Che facevamo finta di essere.
Ecco il libro che ha segnato le scelte letterarie di questi primi mesi del 2023: Una minima infelicità. Ci si può innamorare follemente di un libro?
Certamente. L’ho letto il primo giorno di questo nuovo anno e ci ho messo quasi due mesi per digerirlo, per questo pubblico la mia recensione soltanto adesso.
Le emozioni non rispettano il calendario, a volte si sente il bisogno di esternare immediatamente, nel timore che esse sfuggano via come la sabbia tra le dita e siano difficili da ritrovare attraverso il tumulto emotivo quotidiano.
Altre volte invece si insinuano sotto la pelle e strisciano in profondità, come una spina dolorosa che si fa spazio lentamente e ha bisogno di tempo prima di essere espulsa.
Questo è l’effetto che ha provocato in me Una minima infelicità: un libro dolorosamente perfetto.
Perfetto a partire dalla copertina, dolce e insignificante solo all’apparenza, a riprova che questo è un libro per chi non ha fretta.
Se ti prendi il tempo per osservarla noterai occhi profondi, duri e velati da una tristezza eterna.
Occhi che si mescolano ai gesti quotidiani del caffè al mattino, del maglione che pizzica, della vita che scorre silenziosa e inesorabile.
Infatti Annetta è proprio così: silenzioso personaggio che nessuno guarda veramente, lei per me è la portavoce della categoria degli anonimi, di tutte quelle persone che al primo sguardo non degneresti di una minima attenzione eppure …
Annetta è tanto, è un microcosmo racchiuso in un piccolo, esile corpo che si rifiuta di crescere, è il silenzio di chi dentro di sé nutre un amore sconfinato e si accontenta di raggiungere anche solo l’ombra della sua mamma amata, di sentire il suo fiato la notte.
Imparai negli anni a stare come una cosa piccola e morta sotto gli occhi immobili di mia madre.
La più piccola e morta di tutte le cose.
In realtà lei non desidera altro: non dare fastidio pur di starle accanto.
Al contrario Sofia Vivier, sua madre, è tanto grande e luminosa agli occhi del modo, bella e vivace, circondata da una luce che però non riesce a celare la sua tristezza.
Sofia è infatti creatrice di una vita che la fagociterà pian piano, lasciando un guscio vuoto che Anna non smetterà mai di amare.
Le foto di momenti della sua vita scorrono fra le pagine e i ricordi si confondono alle emozioni.
In questa, una donna che non conosco guarda in basso,
verso di me.
E i miei occhi sembrano dire: dove sei mamma?
Che senso ha questo tormento?
Annetta non sa espandersi in questo mondo anzi, preferisce rimpicciolirsi, ridurre i suoi spazi, limitare il suo orizzonte, vivere assaggi della vita degli altri e quando gli altri scompaiono diventare sempre meno, fino a ridursi al nocciolo, fino a diventare fine.
Un nocciolo che ha racchiuso in se la perfezione, ho amato Annetta e la sua nonna che danzava senza pudore, forse perché in cuor mio, amo profondamente chi sa essere puro, senza corruzione esterna, senza lasciarsi influenzare dal mondo che ci vuole tutti simili, performanti, in continua competizione e scalata verso il successo.
Non ci sono scalate per Anna, ma un sottoscala nel quale si può essere autentici nel proprio immenso, perfetto universo.
Carmen Verde con Una minima infelicità ha creato una meravigliosa opera, ciò che ho amato follemente ( come se non bastasse l’amore viscerale che ho provato per questa storia) è la scelta di uno stile narrativo privo di fronzoli, estremamente diretto e curato anche nel mostrarci “la rinuncia sulla pagina”.
Questo è il suo libro di esordio, mi aspetto veramente tanto dal genio di questa scrittrice.
Una minima infelicità è candidato al Premio Strega, qui le motivazioni. Io faccio il tifo per lei!
Non siamo noi a scegliere il viaggio più importante, quello della vita; spesso determinati fattori ne condizionano irrimediabilmente gli eventi, lasciando solchi indelebili e troppo difficili da scavalcare, a noi non resta che fare Del nostro meglio.
Una narrazione che trascina senza mezzi termini dentro il mondo di Claudia e non c’è modo di sfuggire agli appiccicosi tentacoli della sua vita.
Si può essere figli di un piano prestabilito e non del desiderio amare, di un’ossessione delirante che antepone ogni sentimento ad un bisogno unico e costante.
Più che di passionali notti d’amore, Claudia è figlia di una partita a Risiko, di una pianificazione perfettamente calcolata, pur di imbrigliare l’uomo che le sta pian piano sottraendo la vita.
Una famiglia benestante, lezioni di violino, rigore e severità da parte di mamma, amore e carezze da parte di papà, quando era presente.
La mamma sempre impeccabile e truccata fin dal mattino, arrabbiata col mondo, arrabbiata con Claudia che con la sua nascita non ha risolto il suo problema.
Eppure Claudia non sa che il trucco della mamma é perfetto perché ogni mattina deve nascondere i lividi delle percosse, delle mani che le stringono il collo fino a toglierle il fiato.
Claudia bambina si nasconde dentro la sua bolla, fatta di Peter Pan che la porta lontano, la rassicura sussurrandole che il papà le vuole bene, che i tonfi sordi che si sentono nella camera accanto non sono niente che le interessa.
Poi la bolla scoppia, le perle di mamma si spargono nel pavimento, l’odore di alcool è insopportabile e papà muore.
Claudia da quel giorno si chiama Colpa.
Da allora non ho voluto altro che qualcuno che mi chiamasse mamma
solo per estrarre dalle macerie quella parola e darle una bella lucidata,
per sentirmela attribuire, visto che io non sapevo più pronunciarla.
Il cuore della bambina non ha più posto per altro dolore e si nasconde dietro corazze di sballo e tatuaggi, di smalto nero ed eccessi, alla ricerca di nuove emozioni, alla ricerca di se stessa, alla ricerca di un sogno che la tenga lontana da tutta la merda che si sente attaccata addosso.
Del nostro meglio è un romanzo dal grande impatto emotivo, mentre lo leggevo il mio subconscio continuava ad offrirmi vie di fuga consigliandomi di leggere romanzi fantasy, perché spesso il dolore era troppo forte da sopportare.
Non ci sono né vincitori né vinti in Del nostro meglio, ci sono persone lacerate dal dolore, dipendenti e deviate mentalmente che finiscono con l’essere carnefici più o meno consapevoli.
Claudia e Caterina, figlia e madre, vittima e carnefice, ma non solo, c’è molto di più.
C’è chi sceglie la vita, nonostante questa le abbia riservato solo grandi sofferenze e c’è chi sceglie la morte, trasformandosi in un’enorme bolla di dolore e risentimento.
No,
l’amore deve avere ossa dure per la cattiva sorte,
perché nella buona sono bravi tutti.
Una partita molto dolorosa che pagina dopo pagina mi ha fatto sprofondare e riflettere sulle dinamiche morbose di una famiglia. Ci sono poi dei personaggi di cui mi sono innamorata perdutamente, come la zia Dora e i suoi folli completi!
Del nostro meglio è candidato al Premio Strega, leggi qui le motivazioni.
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